I primi due decenni di Pirelli Hangar Bicocca a Milano
Milano, 4 gen. (askanews) – Vent’anni fa un enorme ex spazio industriale a Milano accolse una delle più incredibili installazioni di arte contemporanea d’Europa, ma in pochi lo sapevano. Nato per custodire le torri fantascientifiche de I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer, da quella lezione artistica e spaziale due decenni dopo Pirelli HangarBicocca ha imparato a essere un luogo di ricerca, di cultura, di sperimentazione e contaminazione complessa. Ha trovato un posto stabile nella vita di Milano e rappresenta un polo culturale della città, che ora tutti conoscono. La storia di questi vent’anni, dal 2004 al 2024, è la storia di un cambiamento, di una crescita, di una presa di consapevolezza di un’azienda e di un’istituzione culturale. È anche il racconto del modo in cui una grande impresa globale, che crede nella sostenibilità sociale, ha giocato sullo scacchiere geopolitico con la cultura, quasi sempre con risultati di prim’ordine.Dal custodire i Palazzi di Kiefer, lo ha detto lo stesso presidente del museo, Marco Tronchetti Provera, si è poi passati ad allargare il campo, a diventare interpreti del contemporaneo attraverso una serie di mostre che dal 2012 hanno cambiato la percezione di Milano nel mondo dell’arte, insieme anche alla nascita e alla crescita di Fondazione Prada, come scrisse pure il New York Times. E riguardare oggi a quanto accaduto in Pirelli HangarBicocca significa ripensare a mostre straordinarie come quella dedicata all’artista brasiliano Cildo Meireles, le cui installazioni ambigue hanno occupato magistralmente lo spazio sentimentale del museo, oppure la meravigliosa, semplice e commovente canzone che veniva intonata da Ragnar Kjartansson e dalla sua band nella mostra-installazione “The Visitors”, o ancora i mondi di luce, cinema e suoni, “senza opere” di Philippe Parreno, la cui esposizione a nostro avviso è probabilmente la più importante realizzata in HangarBicocca insieme a quella dedicata a Juan Munoz e alla sua rivoluzionaria idea di scultura e luogo, e forse anche a quelle mitiche su Mike Kelley e Joan Jonas… Insomma, decidere è forse impossibile, per fortuna. Certo, poi nella memoria restano anche le magnifiche retrospettive sugli ambienti di Lucio Fontana e gli igloo di Mario Merz, ma forse l’ultima volta in cui finora lo spazio difficilissimo delle grandi Navate dell’Hangar è stato davvero compreso fino in fondo è stata la mostra di Maurizio Cattelan, che le ha lasciate vuote, riempiendo però le pareti e i soffitti con i suoi celebri piccioni. Era poesia, anche se forse non tutti l’hanno sentita. Il bello di Pirelli HangarBicocca, però è anche lo spazio di incertezza e a volte di straniamento che lascia al suo pubblico. In questo senso, nel non offrire interpretazioni precostituite, c’è la forza del museo, che, come le giostre lentissime o i corridoi bui di Carsten Holler ci invita a un’esperienza che non è mai facile né banale, ma alla fine c’è la possibilità di uscirne arricchiti.